Le sculture di Demetz, dopo l’indagine simbolica – e semiotica – delle prime, bellissime prove scultoree con cui si presentò al mondo dell’arte oramai più d’un decennio fa, sono infatti andate ben oltre questo culto del disfacimento e della putrefazione, pur avendo con essi una (solo apparente) similitudine: non è – malgrado il senso di corruzione e di tragedia che affiora a tratti dal loro stesso corpo – il gusto sacrificale del malato, del terminale, del cancerogeno, del disgregato, cui tanta arte ha per l’appunto abbondantemente attinto, quanto piuttosto un drammatico senso della vertigine del corpo, del suo farsi estraneo a noi stessi, del suo, facendosi estraneo, ricominciare da capo, tornando, miracolosamente e gioiosamente, alla natura, alle origini, alla radice: di un suo, semmai, ripartire da essa – dalla natura, appunto, col suo eterno e rapido disfarsi, perire e poi rigermogliare e rifiorire di nuovo, anno dopo anno, inesorabilmente – per far fronte e resistere contro il dipanarsi di un apparentemente ineluttabile alienarsi del corpo da noi stessi, a segno del nostro essere, nonostante tutto, ancora profondamente umani.
Ecco allora che il corpo, nella continua e rapida sperimentazione di Demetz sui materiali, sulle forme, sull’anarchico e spontaneo darsi delle forme e dei materiali al mondo (il colare della resina, il bruciare del legno, l’arricciarsi dei trucioli della pelle dei suoi personaggi), assume il senso e la vitalità di un diagramma, di un percorso, un irradiarsi intorno al testo dell’uomo come un raggio di luce intorno a un fiore o a una pianta – ed è di nuovo il corpo, allora, come annotava Nietzsche nei suoi Frammenti, a darsi a noi “come filo conduttore” del nostro ragionare sulla natura e sul mondo.
Tratto dal testo “Germinale o della metamorfosi del corpo” di Alessandro Riva
Pubblicato in occasione dell’omonima mostra presso Barbara Paci Galleria d’Arte, Pietrasanta (LU), 6 luglio – 18 agosto 2013.