Roberto Sala da Pescara
Cosa ti manca? La tua personale esperienza dell’“assenza” e della “mancanza”.
Vivere il mondo dell’arte significa vivere la dimensione pubblica, senza la quale viene meno la fondamentale relazione opera e spettatore e la naturale riflessione che ne consegue. Ovviamente, proprio questo ha cambiato drasticamente il lavoro in questi mesi e, seppure riconoscendo la necessità, in taluni casi anche la validità di determinate esperienze virtuali, sarò onesto, visitare virtualmente una mostra non fa per me, né da spettatore tantomeno da professionista del settore. Ho bisogno di guardare le opere da angolazioni particolari, annusare, avvicinarmi e vivere i luoghi, soprattutto ho bisogno di dialogare con artisti, curatori, critici e galleristi. Perciò auspico, quanto prima, si torni alla normalità perché, per quanto abbia mantenuto contatti attraverso i vari mezzi a disposizione, nulla potrà mai sostituire la fisicità dello spazio reale. Avverto l’assenza della materia e mi manca il contatto, il guardare negli occhi le persone. Nelle videochat, ad esempio, quando pensi di guardare qualcuno negli occhi non sai mai come l’altro vede il tuo sguardo.
Nella mia esperienza di docente in Accademia (Brera e Urbino), la didattica a distanza si è rivelata indubbiamente una grande risorsa, senza essa ci sarebbe stato un vuoto incolmabile ma non può e non deve diventare la prassi. Nell’insegnamento è fondamentale il rapporto reale, in aula, tra docente e studente; fondamentale per comprendere quanto di ciò che si dice viene compreso da chi ascolta; fondamentale per le dinamiche di gruppo. In una battuta, dunque, è l’assenza e la mancanza degli sguardi reali quella che più mi è mancata e mi manca.
Musei e gallerie hanno reagito al momento con la digitalizzazione e la virtualità. Quali sono le tue “strategie” per instaurare nuove relazioni?
Un museo o una galleria sono spazi fisici, architetture che non possono essere restituite in altri modi. Ogni luogo dell’arte nel mondo ha una sua identità che va esplorata, vissuta ed esperita in una dimensione fisica e pubblica che nessuna virtualità può sostituire altrimenti. Questo è il mio pensiero. Tuttavia, è innegabile quanto la virtualità abbia conquistato, negli ultimi decenni, un ruolo sempre più importante nella nostra società e anche nel contesto dell’arte, nella fattispecie delle grandi istituzioni museali, per quel che riguarda la comunicazione, il consolidamento del proprio brand. Se qualcosa in questo tempo e su questo tema si è rivelato ai nostri occhi, è proprio quanto la virtualità, ciò cui mi riferivo prima, non possa in alcun modo sopperire il vivere lo spazio pubblico e sostituire l’esperienza personale. In molti casi, infatti, abbiamo assistito a un uso della virtualità deludente che, anziché mostrarsi per il suo potenziale creativo, è parsa più una risposta adattiva legata al momento, con il risultato di presentare l’arte come un banale entertainment. Credo di poter affermare, forte della mia esperienza nel settore, che fine ultimo dell’arte è concorrere alla crescita culturale del Paese, non quello di occupare semplicemente il tempo libero. Tale discorso, si badi bene, non esclude il mercato tantomeno il turismo, tuttavia le cose meritano di essere riequilibrate alla luce di una nuova sostenibilità. Faccio un esempio personale. A fine febbraio, poco prima del lockdown, ero a Madrid al Reina Sofia per la mostra su Mario Merz, allestita al palazzo di cristallo nel parco del Retiro. Il fatto che il numero dei visitatori era limitato, per via delle sculture presenti in uno spazio non molto ampio, mi ha permesso di godere di quella splendida mostra senza folla. Nei prossimi mesi, a pensarci bene, sarà così per evitare assembramenti. Non una scelta voluta, pertanto, ma obbligata che certamente taglierà fuori diversi visitatori. Sarebbe auspicabile, invece, che tale obbligo maturasse l’idea di un turismo consapevole, non di persone interessate solo a più cuori su Instagram – personalmente preferisco 10 commenti sentiti piuttosto che 100 like “selvaggi” – ma motivate e incuriosite a scoprire le radici della propria cultura. Dovrebbe essere questo l’input di un museo e non solo, dunque il vero nocciolo della questione, la vera sfida per il futuro del mondo dell’arte e della cultura sarà come utilizzare la virtualità, non per misurare i like, gli accessi, gli indici di gradimento ma come integrarla a processi educativi e didattici consoni alla loro originaria mission. Naturalmente ho generalizzato, esistono, infatti, situazioni virtuose che hanno mostrato in questi mesi cosa significhi integrare il virtuale ad una fisicità che non vuole essere bandita. Le mie strategie per nuove relazioni sono quelle di sempre, quelle che da quasi mezzo secolo sono portate avanti dalla mia famiglia e nell’esperienza della rivista. Essere presenti, vivere gli eventi e conoscere gli artisti. In sintesi la mia strategia è la qualità dei rapporti umani, qualità prima di tutto e sempre prima della quantità. Qualità anche nell’approccio al digitale che ci vede impegnati a spingere verso una fruizione del web non veloce contrariamente a quanto il mezzo stesso “si dice” vorrebbe. Rimanere saldi nella qualità della critica e non cedere alla seduzione delle mode, è la sola strategia possibile.
Quale deve essere il ruolo dell’editoria in un momento storico come quello attuale? Un magazine o una piattaforma di informazione specialistica, quali sfide può concorrere ad affrontare?
Ogni giorno in Italia, ma credo anche nel resto del mondo, chiudono diverse librerie ed edicole, anche se le librerie resistono, seppure con grandi difficoltà. Non affronto qui il tema ma ricordo a tutti come proprio il caso dell’apertura e chiusura delle librerie sia stato oggetto di dibattito durante la quarantena. Le riviste sono, almeno quelle del nostro settore, un punto intermedio tra i quotidiani e i libri, un ponte fra informazione e spazio di riflessione critica e approfondimento. In tal senso, sono orientato a pensare che le riviste di critica d’arte – se la praticano seriamente s’intende, cioè come spazio di vero dibattito culturale – non rischino di essere assorbite dal web o sparire nel tritacarne del mercato. Mi riallaccio, in questo caso, a quanto in parte già affermato nella precedente domanda.
In un contesto sempre più competitivo, è fondamentale la qualità affinché l’editoria, non solo sopravviva, ma mantenga un ruolo centrale per la crescita culturale collettiva. Un più importante intervento dello Stato nel settore, finalizzato a contrastare una sleale concorrenza online, aiuterebbe indubbiamente a riequilibrare il mercato ma soprattutto a sostenere il lavoro di piccole case editrici che spesso sono le uniche a sostenere giovani scrittori e saggisti. Per quel che riguarda la sfida di magazine o piattaforme di informazione specialistica, insisto sull’aspetto qualitativo e su un naturale cambio generazionale.
Sono molto orgoglioso di avere tra le nostre penne, giovani talentuosi che scrivono per Segnonline editoriali di spessore. È stato così per la rivista cartacea e la sfida è quella di mantenere alto il livello contribuendo contestualmente alla formazione della critica di domani. Se giovanissimi critici hanno voglia di scrivere vuol dire che ci saranno anche giovani lettori interessati. Questo è quello che deve fare un magazine che voglia definirsi “progetto culturale” e questo conferma quanto affermato prima sulla necessità di interpretare anche il web, non come qualcosa di veloce ma come uno spazio di ulteriore approfondimento.
L’ultima nota. È evidente che servono risorse. Ci tengo però a precisare che i nostri sostenitori non sono numeri ma persone. Abbiamo sempre cercato partner, persone con le quali condividere questa progettualità. Mi fa sorridere come da più parti in questi mesi in molti abbiano caldeggiato la necessità di un diverso intendimento del mercato dell’arte, delle relazioni, del suo mondo in generale. Mi fa sorridere non perché sia sbagliato, tutt’altro! Mi fa sorridere perché ciò che per tanti ora appare una sfida, è per me e per il nostro magazine, dal 1976, la quotidianità. Se è vero che siamo di fronte ad un possibile grado zero dal quale ripartire per ripensare il mondo dell’arte, indubbiamente noi ci sentiamo più che preparati.
Stiamo capendo che si può vivere con meno mobilità?
Questo è un aspetto che non desidero considerare come possibilità. Personalmente ho fatto della mobilità uno stile di vita, mi piace sentirmi a casa in tutte le città che frequento per lavoro. Al di là del mio modo di essere, ritengo sarebbe un grande errore declinare verso un mondo privo di mobilità. Le persone hanno e devono pretendere il diritto di spostarsi per conoscere cose e luoghi nuovi, non possiamo immaginare un mondo da conoscere solo virtualmente. La virtualità, ribadisco, dovrebbe essere non il fine ma lo stimolo a cercare e ricercare conferme nella realtà, dunque una spinta a spostarsi e non a rimanere chiusi in casa. Non solo, pensiamo alla specificità del mondo dell’arte che si nutre di internazionalità ma anche a quella di un piccolo museo civico di una qualsiasi provincia italiana – tanto per rimanere legati al nostro Paese – come si potrebbero comprendere le sfumature di un determinato territorio o cultura se non andandovi di persona? Certo, possiamo studiare qualsiasi cosa, ma il fascino dello studio risiede nella verifica della sua tangibilità. Pensiamo al mondo dell’istruzione, si può immaginare una formazione senza Erasmus? Credo di no. È un fatto accertato che un’esperienza all’estero valga più di qualsiasi altra, non solo per l’apprendimento della lingua ma per le relazioni sociali. Gli uomini e le donne si spostano da millenni, una minore mobilità non è auspicabile. Una mobilità più consapevole e sostenibile invece sì.
Ad oggi quali sono state per te le conseguenze immediate della diffusione del Covid-19 sul tuo lavoro e quali pensi possano essere le conseguenze a lungo termine?
Le conseguenze sono state molteplici e incisive. Con la tipografia chiusa non ci è stato possibile, ad esempio, uscire con la rivista cartacea come consuetudine. Tuttavia, dopo una riflessione ponderata, abbiamo valutato l’opportunità di editarla in una insolita e originale versione digitale, cosa molto apprezzata dai nostri sostenitori. È stata anche una scelta etica, nel senso che ci è parso corretto non interrompere un modus operandi, fissando su quelle pagine contenuti che di prassi non appaiono sull’online, documentando e dando spazio a quelle mostre e a quelle esperienze che a inizio marzo si sono improvvisamente trovate nel limbo della chiusura forzata. Quelle mostre, difficilmente collocabili sul web che, comunque, nonostante tutto segue tempistiche più legate al presente, sul n.277 hanno trovato la consona lettura e il giusto apprezzamento.
Tuttavia, ci tengo a precisare si è trattato e si tratta di una soluzione maturata nella contingenza del momento, la rivista appena possibile riprenderà la consueta pubblicazione cartacea anche se, innegabilmente, questa esperienza si è offerta a noi come ulteriore spunto di valutazione per migliorare i nostri servizi web.
Altra conseguenza dettata dalla diffusione del Covid-19, quella che ha determinato l’impossibilità di stampare la rivista, lo slittamento degli appuntamenti fieristici di tutta Europa cui Segno è intimamente legata proprio nel cadenzare delle sue pubblicazioni. Ancora una volta, per noi il tema sono i luoghi dell’arte e i suoi spazi pubblici, senza i quali è naturale l’interrompersi della versione cartacea della rivista. Di queste settimane, non a caso, è la lettera indirizzata al Ministro Franceschini di ANGAMC – Associazione Nazionale Gallerie d’Arte Moderna – che sollecita ad interventi mirati per artisti, gallerie e Fiere. Il tema è proprio questo e a seguire coinvolge qualsiasi soggetto legato a questo mondo. Il problema va risolto quanto prima o le conseguenze a lungo termine saranno molto più drammatiche delle attuali. Come Direttore Editoriale di Segnonline, a nome della Rivista Segno fondata dai miei genitori Umberto Sala e Lucia Spadano e di tutta la redazione, mi auguro che il mondo dell’arte torni presto a pulsare come prima.
Roberto Sala è editore, graphic designer e fotografo d’arte, dal 2012 è docente di Grafica all’Accademia di Brera nel corso di Terapeutica Artistica e all’Accademia di Urbino, da quest’anno, dove insegna Storia della stampa e dell’editoria nel corso di Edizioni e illustrazione per la grafica d’arte. Direttore della casa editrice Sala Editori specializzata in pubblicazioni d’arte e architettura, affianca alla professione di editore quella di grafico, seguendo l’immagine coordinata delle più importanti manifestazioni culturali della città di Pescara fra le quali: Funambolika e Pescara Jazz. Dal 1992 è Art Director della Rivista Segno per la quale dal 1976 ha ricoperto diversi ruoli e incarichi. Dal 2019 è Direttore Editoriale di Segnonline per il quale traccia la linea politica e di sviluppo del periodico.