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Marco Scotini da Milano

La tua nuova ritualità quotidiana…
Una sorta di teatro il cui copione è scritto da qualcun altro. Le interdizioni sono molte di più delle possibilità d’azione. Una sorta di decalogo a cui siamo costretti ad attenerci. Come non uscire, cosa indossare, cosa è severamente vietato fare, come rimanere totalmente disinformati, come essere travolti dal terrore, come fare della separazione il massimo valore sociale, come diffidare di qualunque altro, come gridare all’untore, all’emigrato, alla persona di colore… Potrei fermarmi qui. Se non che, in questo teatro, a volte si cerca brechtianamente di estraniarsi, di togliersi la maschera. E ci succede anche di pensare, di leggere qualche pagina memorabile, di scriverne qualcuna passabile, di guardare qualche bella immagine di un film che avremmo sempre voluto vedere.

Com’è cambiato il tuo modo di lavorare?
Non è cambiato solo il modo di lavorare ma la vita come tale. Se quella di prima non era vera, questa sappiamo che è totalmente contraffatta. Se c’è una parola che vorrei abolire dal linguaggio internazionale è l’attributo inglese “smart” per quanto mi appare criminale… la smart city è un carcere perfetto, lo smartphone ci rende stupidamente compulsivi e, dello smart working, è meglio non parlare. Quello che mi ha veramente provato in questa esperienza è stato, di fatto, come il dramma sanitario sia stato l’occasione di un profluvio di inarrestabili retoriche sul potere dell’intelligenza artificiale, sull’impossibilità di frenare, di concepire un limite. La macchina è perfetta e gli algoritmi non consentono errori…

Abbiamo a che fare con un tempo e uno spazio nuovi. Cosa stai scoprendo o riscoprendo di te?
Sto facendo esperienza di cose a cui stavo pensando da un pò di tempo. Il viverle in negativo le rende urgenti, necessarie: l’interdipendenza tra le cose umane ed extra-umane, una natura ripensata radicalmente dentro di noi e non come un fuori, l’orrore della cultura patriarcale, il diritto universale a respirare – come proprio ora ha scritto qualcuno.

Cosa ti manca? La tua personale esperienza dell’“assenza” e della “mancanza”.
La mia biblioteca! Purtroppo sono rimasto bloccato nella mia casa di Milano, mentre conservo la biblioteca nella casa di Cortona. Ogni biblioteca non è un cumulo ingente di libri ma uno spazio pieno di fantasmi, una ricchezza di presenze che ci sono e non ci sono. Vite infami, misteriose, condensate: cellule, microcosmi, unità indivisibili, opportunità mancate. Togliere libri da uno scaffale e metterli in un altro, può significare cambiare un ordine alla storia. Aggiungere un semplice libro in quello stesso scaffale magari comporta il fatto di stravolgerne il senso. Raccoglierne alcuni apparentemente eterogenei vuol dire creare un nuovo senso. Ogni libro ci rimanda a un tempo, a una figura, a uno spazio. Ad un passato, ad un presente, a un futuro. L’insieme cartaceo sta per un mondo di possibilità, di anacronismi, è il caos (umano, troppo umano) che ci piace abitare e dove non corri il rischio di ritrovarti solo.

Come immagini il mondo, quando tutto ripartirà?
Difficile immaginarlo! Il sonno della ragione ha generato sempre mostri. E noi stiamo vivendo una delle pagine peggiori del capitolo neoliberista, autoritario, repressivo e neufeudale. Non so se finirà un giorno lo stato di eccezione… Addirittura: se non lo capovolgeremo sarà permanente.

Marco Scotini è un curatore italiano di base a Milano. È direttore artistico di FM Centro per l’Arte Contemporanea. Dal 2004 è direttore del dipartimento di Arti Visive e Studi Curatoriali di NABA (Milano e Roma) e dal 2014 è responsabile del programma espositivo del Parco d’Arte Vivente (PAV) di Torino. Ha curato il Padiglione Albanese alla Biennale di Venezia (2015), tre edizioni di Prague Biennale, Anren Biennale (2017) e la Seconda Yinchuan Biennale (2018).