Federica Gonnelli da Campi Bisenzio (FI)
Com’è cambiato il tuo modo di lavorare?
Per me, come per tanti, questo periodo ha significato una lontananza forzata dal luogo di lavoro, l’impossibilità di reperire i materiali e di produrre con le modalità proprie. All’alba dell’emergenza COVID-19, ho partecipato con STUDIO 38 Contemporary Art Gallery a JustMad Art Fair a Madrid, con un solo show dal titolo Ipotesi di felicità / Hypothesis of happiness, risultato di una approfondita ricerca su uno dei temi che mi è più caro: il confine e, al tempo stesso, lucida e premonitrice riflessione sul confinamento che sarebbe seguito. Quando il 2 marzo sono rientrata da Madrid, ho deciso volontariamente di stare in isolamento a casa per 14 giorni. A Madrid l’emergenza era ancora lontana e si guardava con molta apprensione a ciò che tragicamente stava già accadendo in Italia. La tensione era palpabile e cresceva di pari passo alla mia preoccupazione perché durante la fiera, negli spostamenti e nel viaggio ero stata inevitabilmente sovraesposta alla possibilità di contagio e ho ritenuto opportuno tutelare il più possibile la salute dei miei cari. Confesso che inizialmente ho visto in questo isolamento anche qualcosa di benefico, oltre che un dovere civile, perché necessitavo di una pausa dopo mesi di lavoro frenetico per preparare Ipotesi di felicità / Hypothesis of happiness, di un periodo di decompressione dopo i giorni di fiera e, infine, avevo bisogno di ricaricarmi e convogliare tutte le energie positive accumulate verso i tanti nuovi progetti che mi attendevano. Nei primi giorni di isolamento ho ripreso a lavorare tra il tavolo della sala da pranzo e la scrivania del pc, come quando nei primi anni di Accademia non avevo uno studio, preparando grafiche, rielaborando immagini, programmando stampe, stilando liste di materiali da acquistare, supporti da costruire ed interventi, foto, video da fare in studio appena sarebbe stato possibile, con la convinzione e la prospettiva che molto presto, sarei tornata a InCUBOAzione.
Purtroppo, pochi giorni prima che terminasse il mio isolamento, la gravità dell’emergenza COVID-19 ha reso necessario il rafforzamento delle misure per il contenimento del contagio, rendendo vana ogni mia speranza di proseguire i lavori avviati, terminare i progetti ed esporre le opere. Dopo alcuni giorni trascorsi con un groppo in gola, con una sensazione di insoluto, di tristezza per ciò che stava accadendo, di impotenza e di immobilità assoluta, ho deciso di mettere in pausa tutti i progetti da ultimare. L’unica via di uscita da questo ingolfamento era progettare qualcosa di nuovo, sperimentando i materiali accumulati negli anni in magazzino. Ho così selezionato varie tipologie di carte di piccolo formato e tessuti di cotone da utilizzare come supporti, ecoline, grafite e matite acquerellabili unite a stampe sensibili all’acqua per testare nuove modalità di riporto a solvente. Pensare a un nuovo progetto mi ha aiutata decisamente a trascorrere queste giornate e a guardare al futuro con un campo visivo più ampio e profondo che non si limita al domani, o alla fase due, ma va oltre, così è nato You’re (not) h/alo/ne. Dall’inizio dell’isolamento ho tenuto una sorta di diario intimo visuale composto da sintetici autoritratti accompagnati da brevi note scritte, un modo per segnare lo scorrere monotono dei giorni, estremamente simili gli uni altri, ma comunque diversi, così come il cambiamento del mio volto, copia conforme del giorno prima e, al tempo stesso, copia non conforme. Fino a pochi giorni fa consideravo questo diario un diversivo che sarebbe rimasto privato e inedito, poi è accaduto un fenomeno atmosferico raro e di estrema bellezza che ha cambiato la destinazione di questo esercizio privato e dato definitivamente forma e contenuto al progetto. La mattina del 16 aprile intorno al sole si è formato un alone, visibile da gran parte del centro nord dell’Italia, dovuto alla presenza di cirri, che contengono al loro interno minuscoli cristalli di ghiaccio. La condivisione a distanza di un evento di questo tipo mi ha fatto riflettere sulla situazione globale che stiamo vivendo e mi ha fatto pensare, attraverso un gioco di parole sole/sola/solo/soli, “tu non sei sola/o” a una canzone inglese di quando ero ragazzina. Nella canzone “You’re not alone” di Olive, sola/solo/soli si traduce in alone, stessa trascrizione dell’italiano alone, ma con un diverso significato. Infine alone in inglese diventa halo, aureola, corona (termine molto in uso negli ultimi mesi, purtroppo) ma sinonimo anche di velo. La ripetizione uguale e differente del mio autoritratto si scinde dal racconto privato e dalla mia, seppur solo accennata, descrizione fisica, diventando ritratto dell’altro e racconto collettivo. Niente avviene per caso e, soprattutto, ciò che avviene “naturalmente” è sempre di buon auspicio o comunque è una risposta o un messaggio della natura che non va ignorato, è l’uomo che molto spesso snatura, fraintende, maltratta, depreda materialmente e simbolicamente tutto. Ci sarà tempo per riprendere i progetti in pausa, intanto, You’re (not) h/alo/ne farà parte della collettiva 40 days a cura di Mattia Lapperier presso “Quasi Quadro” a Torino il prossimo novembre, una mostra che già si propone come interessante occasione per riflettere sul periodo di isolamento forzato che stiamo vivendo in questi mesi.
Abbiamo a che fare con un tempo e uno spazio nuovi. Cosa stai scoprendo o riscoprendo di te?
Questo periodo drammatico ci mette tutti alla prova, necessita di essere vissuto diversamente e segnerà un inevitabile cambiamento nella vita di tutti noi. È uno spazio/tempo sospeso, di indugio, di attesa, uno spazio/tempo fatto di “intanto”. Intanto faccio questo/questo lo farò poi, ma intanto cosa? Tutto ciò per me ha significato non farmi piegare dallo spazio/tempo del Coronavirus, ma piegare a mio favore questo spazio/tempo. L’importante è, nei limiti del possibile, non procrastinare, né ora, né quando l’emergenza sarà finita. Uno spazio/tempo, al quale ho voluto dare una dimensione di condivisione più intima dei contenuti essenziali. Uno spazio/tempo, dedicato alla qualità e non alla quantità, che non ho voluto e non voglio riempire per forza. Uno spazio/tempo al quale non voglio dare il merito di avermi fatto trarre lezioni o conclusioni definitive, perché non ho bisogno di una pandemia per rivalutare i miei rapporti familiari e le mie amicizie, perché tutto questo l’ho sempre fatto e lo faccio costantemente seguendo i miei spazi e i miei tempi tutti i giorni.
Cosa ti manca? La tua personale esperienza dell’“assenza” e della “mancanza”.
La solitudine non mi spaventa, conducevo una vita abbastanza ritirata anche prima delle restrizioni, solitaria, ma non sola, anche nel mio lavoro. Mi manca la buona compagnia, mi mancano gli amici vicini e quelli sparsi per l’Italia e oltre, in questo momento nel quale le lontananze si sono azzerate e siamo tutti fisicamente lontani. Oggi è diventato ancor più palese quanto un’assenza, una mancanza, sia pesante in confronto ad una presenza data per scontata. Mi mancano, oltre al lavoro in studio, lo spazio fisico dello studio stesso e gli altri miei luoghi. Mi manca la mia città, Firenze, che quando sono triste o arrabbiata mi riconnette e riappacifica con il mondo, mi manca la sua luce nelle mattine di primavera, i suoi rumori. Mi mancano le vie e le piazze attorno alle quali si è sviluppata prima la mia vita di studentessa e poi quella d’artista. Mi mancano i miei negozi di fiducia dove stampo le mie immagini o dove acquisto i miei materiali di lavoro. Mi mancano i musei, le mostre, le inaugurazioni, i concerti, gli spettacoli. Mi mancano i treni, le stazioni di partenza, di arrivo e quelle di passaggio, i viaggi… All’inizio dell’isolamento ho deciso di rileggere, dopo 15 anni, “L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello” di Oliver Sacks, un libro che riesce meravigliosamente a far luce nel buio più profondo della malattia, un libro nel quale si parla di mancanze, assenze, perdite ed inevitabilmente anche dei loro opposti: gli eccessi. Un libro la cui rilettura è diventata di fondamentale importanza in questo momento di emergenza, nel quale combattiamo contro una malattia subdola, rimbalzando tra sensazioni opposte di ansia e speranza, razionalità e irrazionalità, egoismo e solidarietà, con troppo tempo o poco tempo a disposizione, chiusi negli spazi delle nostre case ristretti e pieni, osservando i luoghi di aggregazione delle nostre città immensi e vuoti. Non amo i luoghi molto affollati, sono attratta invece dalle stanze vuote e dagli spazi abbandonati e in questi giorni vedere le immagini delle nostre città deserte mi crea un malessere profondo dovuto al contrapporsi del desiderio di violare le restrizioni e il vuoto, alla sofferenza di cui a stento trattengo le lacrime. In particolare, tra le varie perdite di cui narra Sacks mi ha colpito il caso di un paziente che aveva perduto l’olfatto: «“Non me n’ero mai curato. Di solito uno non ci pensa. Ma quando Io persi, fu come se fossi diventato di colpo cieco. La vita perse molto del suo sapore… non ci si rende conto di quanto il “sapore” sia in realtà olfatto. Si odora la gente, si odorano i libri, si odora la città, si odora la primavera, forse non in modo consapevole, ma come uno sfondo ricco e inconscio che sta dietro a ogni cosa. D’improvviso tutto il mio mondo s’impoverì radicalmente”. C’era un acuto senso di perdita, un acuto struggimento, un’autentica osmalgia: il desiderio di ricordare il mondo olfattivo al quale non aveva prestato alcuna attenzione cosciente ma che, come ora capiva, era stato una specie di “basso continuo” della vita». Mi manca il sottofondo, mi mancano gli odori della mia città, anche i più terribili ora che l’aria si è fatta estremamente fina, ricca di ossigeno, priva di impurità, ora che l’aria della sera preannuncia già l’arrivo dell’estate. Mi manca il respiro. Quella stessa mancanza di olfatto e di respiro che tra l’altro sono tristemente tra i sintomi del Covid-19, segno di una ulteriore condivisione a distanza.
Ad oggi quali sono state per te le conseguenze immediate della diffusione del Covid-19 sul tuo lavoro e quali pensi possano essere le conseguenze a lungo termine?
Nei mesi di aprile, maggio e giugno sarei stata coinvolta in vari eventi – tre mostre collettive, tre personali e una serie di presentazioni – che al momento sono posticipati, ma che non è detto sarà possibile recuperare. Per assurdo ora rimpiango quel groviglio di impegni che mi attendevano in questi mesi, quello stesso groviglio che a febbraio mi maledicevo di aver creato!!! Sicuramente sarà recuperata appena possibile la personale Come isolate nubi presso STUDIO 38 Contemporary Art Gallery, di Pistoia, la cui inaugurazione era prevista il 18 aprile. Il progetto è stato presentato nel primo numero del magazine Ŏpĕra, edito dall’Associazione ATTIVA Cultural Projects ETS. La mostra, che sarà accompagnata da un testo di Giulia Cacciola, è composta da una serie di opere, diverse per entità e forma. Le opere, partendo da una riflessione circa la formazione delle nubi, proseguono analizzando dal punto di vista concettuale la presenza delle stesse nubi in cielo e per estensione, ai limiti dell’impossibile, in ogni altro spazio vuoto, per infine giungere ad indagare come le nubi si relazionano ed interagiscono con l’essere umano e sulla sua identità. La presenza della nube si fa corpo nel vuoto del cielo, svuotando totalmente la corporeità umana e facendone un’assenza. Con il vuoto causato dal distanziamento sociale, ma purtroppo anche dalla scomparsa di una intera generazione che sta soccombendo al virus, parlare di “dissipazione”, dal romanzo “Dissipatio H.G.” di Guido Morselli, in cui il termine dissipatio assume valenza di evaporazione per descrivere l’improvvisa ed enigmatica sparizione del genere umano, ad eccezione del protagonista, sarà ancora più attuale e stringente. Il Covid-19 lascerà sicuramente e inevitabilmente un vuoto nelle nostre esistenze e più materialmente nei nostri curriculum vitae, una traccia di un tempo dissipato o che parzialmente siamo riusciti a non dissipare, ma che comunque non ci verrà mai restituito dal punto di vista lavorativo. È molto difficile dire quali saranno le conseguenze a lungo termine della pandemia sul mio lavoro o più in generale sul sistema culturale, perché le variabili in gioco sono tante e i possibili scenari, dove si alternano visioni pessimiste e ottimiste, infiniti. Tutto dipenderà dalla situazione economica che si verrà a creare e dai provvedimenti che saranno presi, ma soprattutto anche da come reagiremo psicologicamente alla ripartenza dopo l’isolamento. Vorrei dire che da questa crisi nasceranno nuove opportunità, che ne trarremo nuovi insegnamenti, che saremo migliori, che saremo più capaci di fare rete, che acquisiremo più consapevolezza, che saremo più solidali, ma non so quanto di tutto questo si concretizzerà, quanto sarà incamerato da ciascuno di noi, quanto io stessa sarò capace di carpire, perché la memoria è breve e la facoltà di dimenticare e di sbagliare è innata nell’uomo. Sicuramente, in questi mesi in cui tutta la cultura è stata solo digitale è stato compiuto un grande passo avanti, inimmaginabile prima dell’emergenza, ma l’esperienza virtuale non potrà mai sostituire completamente l’esperienza reale. Il digitale non può essere l’unica fonte di conoscenza, esperienza e informazione, le due realtà dovranno procedere di pari passo dialogando e integrandosi sempre più, senza più contrapporsi. L’unica certezza è che ciò che verrà dopo sarà il nostro futuro, l’unico che abbiamo a disposizione, saremo diversi e dovremo fronteggiare con tutte le nostre forze e capacità e con nuovi strumenti e modalità, problemi diversi. Perché niente del prima sarà uguale dopo.
Federica Gonnelli è nata a Firenze, città nella quale ha svolto il percorso di studi artistici. Vive e lavora al confine tra Firenze e Prato, dove ha aperto lo studio “InCUBOAzione”. Dal 2001 ha esposto in personali, collettive, concorsi e partecipato a varie residenze, pratica che ha acquisito una particolare importanza nella sua ricerca. Al tema del confine, che caratterizza il suo percorso, è dedicato “Ipotesi di felicità / Hypothesis of happiness”, il progetto presentato tra febbraio e marzo 2020 con STUDIO 38 Contemporary Art Gallery a JustMad Art Fair a Madrid. Ogni velo d’organza o fotografia a doppia esposizione, sono determinanti elementi che concorrono nella significazione dell’opera, imponendo uno slancio agli osservatori. Il lavoro di Federica permette molteplici stratificazioni di materiali e di interpretazioni, ciascuna delle quali finisce per supporne un’altra, così che non possa mai dirsi completamente esaurita la lettura.
Le sue gallerie di riferimento sono: Studio 38 Contemporary Art Gallery, Pistoia; Nuvole Arte Contemporanea, Montesarchio (BN); Artforum, Bologna; La Fortezza, Gradisca d’Isonzo (GO); Nellimya Arthouse, Lugano (CH). www.federicagonnelli.it